Intervista a Michele Grandolfo, epidemiologo e dirigente di ricerca presso l’ISS, che ha sostenuto, difeso e sviluppato il sistema dei consultori pubblici istituiti dalla Legge 405 del 1975. «Il consultorio
è il luogo in cui la persona non riceve ordini ma ritrova competenze: un servizio che ascolta, valorizza e fa emergere la potenza delle donne»
Sono uno dei pilastri fondamentali del Servizio Sanitario Nazionale, ma tra i meno riconosciuti e valorizzati. Nati 50 anni fa per accompagnare le donne e le famiglie nella tutela della salute, i consultori familiari hanno attraversato stagioni politiche, scontri culturali, tagli e riorganizzazioni. Michele Grandolfo, epidemiologo e dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità – da studente a borsista, fino a dirigente di ricerca del Laboratorio di Epidemiologia – ci aiuta a ripercorrere la loro storia e la loro funzione sociale e culturale.
Dottor Grandolfo, come e perché ha iniziato a interessarsi di consultori familiari?
Da una parte attraverso gli studi universitari, dall’altra attraverso una forte esperienza politica. In particolare, negli Anni ’60-’70 nasceva il movimento delle donne, con rivendicazioni di autonomia molto simili a quelle operaie: «Il corpo è mio e lo gestisco io» era il loro slogan. Un’idea che rompeva con il paternalismo direttivo della medicina tradizionale. Erano, quelli, anni luminosissimi, in cui videro la luce riforme importanti, tra cui le norme sul diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori, l’abolizione del divieto di promozione dei contraccettivi, la legge sui consultori del 1975, la Legge 180 del 1978 e, nello stesso anno, la Legge 194, per l’interruzione volontaria di gravidanza. Il movimento delle donne, in particolare, fu in quegli anni un modello straordinario. E proprio in quegli anni, le femministe più lungimiranti diedero vita a consultori autogestiti basati su partecipazione e multidisciplinarità, dimostrando una grande capacità di leggere la complessità sociale. Avveniva così il passaggio dal modello biomedico a quello biopsicosociale. E questa è l’anima dei consultori familiari pubblici nati con la Legge 405 del 1975.
Cosa differenzia i consultori dai servizi sanitari tradizionali?
Due elementi fondamentali: centralità della persona e multidisciplinarità. I consultori non dovevano dire alle donne come vivere, come accadeva invece nei consultori precedenti, sia che fossero d’ispirazione laica che religiosa, ma comunque caratterizzati da un approccio paternalistico direttivo. Lo spirito della Legge 405 era invece mettere le donne nelle condizioni di esercitare autonomia. I consultori nati da quella legge erano servizi nuovi, radicalmente diversi. Purtroppo molte leggi regionali non ne recepirono lo spirito fino in fondo, o non lo recepirono affatto. Al tempo stesso, i consultori furono – e sono tuttora – spesso osteggiati dai servizi sanitari tradizionali, che non ne accettavano e non ne accettano la loro carica di innovazione. Ricordo donne che, dopo il colloquio in consultorio per l’interruzione volontaria di gravidanza, arrivavano nei reparti ospedalieri e si sentivano dire: “Questo documento non vale nulla”. Un modo per delegittimare il consultorio e scoraggiare le persone dall’andarci.
Cosa hanno oggi da insegnare e da dare i consultori?
I consultori familiari sono gli artefici della straordinaria riduzione del tasso di abortività, laddove vengono sostenute e realizzate con rigore le attività sia di prevenzione sia di educazione: le indagini epidemiologiche dimostrano che danno più informazioni, riducono il rischio di inappropriatezza, favoriscono l’allattamento al seno e promuovono quanto raccomandato. Ma serve continuità, serve personale, serve multidisciplinarità, mentre i consultori oggi sono molto indeboliti: per legge, dovrebbe essercene uno ogni 20.000 abitanti, ma difficilmente è così. E gli organici sono spesso incompleti e formati da personale non di ruolo. Le Asl chiedono numeri, prestazioni, quantità, ma i consultori non nascono per produrre numeri: nascono per produrre empowerment, per dare alla donna consapevolezza della propria potenza e della propria capacità di prendersi cura di sé stessa. La gravidanza non deve essere vissuta come una malattia, con una sfilza di esami inutili da eseguire, per lo più a pagamento. Il percorso nascita è il più grande “mercato della salute” sul corpo delle donne.
A proposito di corpo delle donne, oggi si parla tanto di educazione all’affettività come antidoto alla violenza di genere. Che ruolo possono giocare i consultori?
Un ruolo enorme. Oggi l’educazione all’affettività è lasciata alla buona volontà di singoli insegnanti. Servono invece “operazioni rompighiaccio” per favorire l’emersione nelle attività curricolari dei temi delle relazioni di genere, della sessualità e dell’affettività.
Cosa chiede, quindi, alle istituzioni, affinché assegnino ai consultori il ruolo e le risorse indispensabili perché possano svolgere la propria funzione?
Chiedo di applicare integralmente il Progetto Obiettivo Materno Infantile, che individua tre progetti strategici: percorso nascita, adolescenti e prevenzione dei tumori femminili. Tre priorità non solo per la gravità e la frequenza dei problemi che possono essere prevenuti, quanto soprattutto per l’alta possibilità di intervento. Ma serve un servizio capace di andare verso le persone con professionalità e umiltà e dedicando il tempo giusto, non i dieci minuti che spesso si pretende bastino per una prestazione. I consultori sono nati per restituire potere alle persone, soprattutto alle donne e alle persone in età evolutiva: per far emergere la loro potenza, il loro ruolo centrale nella società. Per ridurre le disuguaglianze e sviluppare pienamente la personalità umana, come dice la Costituzione. Quella rivoluzione non è mai stata completata. Ma possiamo ancora farlo. Basta ricominciare dall’ascolto.
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