Una ricerca dell’American Heart Association ha dimostrato che integrare vitamina D3 nel sangue riduce del 50% la probabilità di un nuovo attacco cardiaco. Soprattutto nei pazienti già colpiti.
Una scoperta che cambia le prospettive
Chi ha già subito un infarto potrebbe ridurre drasticamente il rischio di recidiva attraverso una soluzione più semplice del previsto.
Secondo uno studio presentato dall’American Heart Association, integrare vitamina D3 fino a raggiungere livelli ottimali nel sangue taglia del 50% la probabilità di un secondo attacco cardiaco. La ricerca, condotta da Intermountain Health negli Stati Uniti, ha coinvolto oltre 600 pazienti reduci da infarto miocardico acuto e ha messo in luce come un approccio personalizzato nella supplementazione faccia davvero la differenza rispetto alle terapie standard.
L’elemento chiave sta nel portare i livelli di vitamina D oltre la soglia di 40 nanogrammi per millilitro di sangue, un valore significativamente più alto rispetto a quanto generalmente considerato sufficiente. La maggior parte dei pazienti coinvolti nello studio ha avuto bisogno di dosi iniziali di 5.000 unità internazionali al giorno, una quantità da sei a otto volte superiore alle 600-800 unità raccomandate normalmente per la popolazione generale.
Gli autori della ricerca hanno verificato annualmente i livelli ematici dei partecipanti per assicurarsi che rimanessero sopra la soglia stabilita, adeguando le dosi quando necessario.
Attenzione all’approccio personalizzato
Mentre per quanto riguarda scompenso cardiaco, ictus e mortalità non sono emerse differenze sostanziali tra chi ha seguito la terapia standard e chi ha assunto integratori di vitamina D3. Il quadro cambia radicalmente quando si guarda specificamente agli infarti ricorrenti. Il gruppo trattato con supplementazione mirata ha mostrato un rischio dimezzato di subire un nuovo attacco cardiaco rispetto al gruppo di controllo.
Heidi May, epidemiologa cardiovascolare di Intermountain Health e tra gli autori dello studio, ha sottolineato come la chiave del successo risieda proprio nell’approccio personalizzato. Controllare regolarmente la risposta alla supplementazione e modificare le dosi in base ai risultati individuali si è rivelato determinante. La carenza di vitamina D rappresenta un problema diffuso.
>Si stima che circa il 13% della popolazione europea presenti livelli gravemente insufficienti, principalmente a causa della scarsa esposizione solare diretta sulla pelle, necessaria per la produzione naturale di questa vitamina.
Sicurezza e prospettive della ricerca
Lo studio ha fatto emergere un aspetto rassicurante sulla sicurezza: i pazienti sottoposti a supplementazione con vitamina D3 non hanno registrato alcun effetto collaterale negativo. Gli esperti precisano comunque che, come regola generale, gli adulti non dovrebbero superare le 4.000 unità internazionali giornaliere per evitare complicazioni come calcoli renali o ipercalcemia.
Va detto che precedenti studi randomizzati non avevano riscontrato benefici cardiovascolari dalla vitamina D. Tuttavia i ricercatori evidenziano una differenza metodologica fondamentale: in quelle ricerche i medici prescrivevano dosi standard a tutti i pazienti, indipendentemente dai loro livelli di partenza. L’approccio seguito in questo nuovo studio, basato su controlli periodici e aggiustamenti personalizzati, sembra aver fatto la differenza nel proteggere i pazienti da nuovi eventi cardiaci.
Cosa manca per la conferma definitiva
I risultati, presentati durante l’ultimo congresso dell’American Heart Association, non sono ancora stati pubblicati su una rivista scientifica sottoposta a revisione paritaria. Gli stessi autori riconoscono la necessità di ulteriori approfondimenti per validare le scoperte. Eppure, la professoressa Heidi May ha dichiarato che il gruppo di ricerca è entusiasta dei risultati ottenuti ma consapevole del lavoro ancora da fare per confermare definitivamente i dati.
La strada verso protocolli clinici standardizzati richiede studi su campioni più ampi e tempi di osservazione prolungati. Intanto la statunitense ricerca apre prospettive concrete per una prevenzione secondaria più accessibile ed economica rispetto a molte terapie farmacologiche tradizionali.
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