Un team di ricercatori dell’Allen Institute di Seattle ha individuato i meccanismi molecolari che rendono le vaccinazioni meno efficaci nella popolazione anziana. Lo studio, pubblicato su Nature, apre la strada a nuove strategie per potenziare la risposta immunitaria dopo i 65 anni.
Le difese immunitarie che invecchiano
La stagione influenzale si ripete ogni anno con la stessa domanda: perché proprio gli anziani, che avrebbero maggiore bisogno di protezione, rispondono peggio ai vaccini? Un gruppo di scienziati dell’Allen Institute di Seattle ha trovato una risposta che potrebbe cambiare l’approccio alle campagne vaccinali del futuro. La ricerca, apparsa sulla rivista Nature, ha seguito 96 persone tra i 25 e i 65 anni per oltre due anni, analizzando più di 16 milioni di cellule del sistema immunitario attraverso tecniche di sequenziamento all’avanguardia.
Secondo i dati raccolti, con l’avanzare dell’età, i linfociti T subiscono una trasformazione profonda che compromette la loro capacità di coordinare la risposta immunitaria. Questi globuli bianchi hanno un ruolo cruciale perché istruiscono i linfociti B su come produrre anticorpi contro virus e vaccini. Quando i linfociti T perdono efficienza, l’intera catena di difesa si indebolisce. Il risultato è che una persona di 70 anni, anche in buona salute, può rispondere a un vaccino antinfluenzale con meno della metà degli anticorpi prodotti da un trentenne.
Gli studiosi hanno scoperto che il problema non riguarda tutti i tipi di cellule immunitarie allo stesso modo. Mentre le cellule “natural killer” e i monociti mantengono le loro caratteristiche nel tempo, i linfociti T mostrano alterazioni trascrizioni già prima dei 65 anni. Le modifiche coinvolgono l’espressione genica, ovvero il modo in cui le informazioni contenute nel DNA vengono tradotte in molecole funzionali. Questo processo di riprogrammazione genetica è stabile, si mantiene nel tempo e non dipende da infiammazioni o patologie legate all’età, ma rappresenta un invecchiamento fisiologico dell’organismo.
Quando la memoria immunitaria si confonde
L’aspetto più interessante emerso dalla ricerca riguarda la memoria immunologica. I linfociti T “naive”, quelli “giovani” che non hanno mai incontrato un particolare agente patogeno, diminuiscono drasticamente con l’età a causa dell’involuzione del timo, l’organo che li produce.
Parallelamente aumentano i linfociti T “memory”, quelli che hanno già combattuto infezioni precedenti. Questo sbilanciamento, però, crea un problema. Quando arriva un virus nuovo o un vaccino contro un ceppo influenzale diverso, l’organismo anziano fatica a mobilitare le cellule giuste per costruire una difesa efficace.
Il team di Seattle ha misurato questi cambiamenti attraverso un indicatore chiamato RAM (RNA age metric), che quantifica la riprogrammazione legata all’età nelle cellule T. I valori più alti di RAM si registrano proprio nelle cellule T centrali della memoria e nelle cellule T naive, quelle fondamentali per rispondere a nuove minacce. Lo studio ha confermato che questa riprogrammazione aumenta in modo non lineare con l’età e resta costante nel tempo, suggerendo che si tratta di un processo biologico intrinseco e non modificabile facilmente.
Ma c’è un altro elemento che complica il quadro. I ricercatori hanno osservato che con l’invecchiamento si verifica uno spostamento verso uno stato di tipo TH2 nelle cellule T della memoria. In pratica, queste cellule iniziano a produrre spontaneamente livelli più elevati di interleuchina-4, una citochina che altera il processo di commutazione degli anticorpi. Questa alterazione porta alla produzione di immunoglobuline di tipo IgG2 anziché IgG1 e IgG3, che sono invece le più efficaci contro i virus influenzali. Gli anziani vaccinati contro l’influenza mostrano proprio questo pattern: producono anticorpi, ma non sempre del tipo più protettivo.
Vaccini potenziati
La comprensione di questi meccanismi sta già orientando lo sviluppo di vaccini specifici per la popolazione anziana. Da qualche anno sono disponibili formulazioni ad alto dosaggio, che contengono una quantità quattro volte superiore di antigeni rispetto ai vaccini standard. Altre formulazioni includono adiuvanti, sostanze che stimolano più intensamente il sistema immunitario. Il vaccino Shingrix contro l’herpes zoster, ad esempio, utilizza l’adiuvante AS01B per compensare la ridotta reattività immunitaria degli over 65.
I dati sull’efficacia di questi approcci sono comunque incoraggianti. Gli studi clinici dimostrano che i vaccini antinfluenzali ad alto dosaggio riducono del 24% il rischio di ospedalizzazione per influenza negli anziani rispetto ai vaccini tradizionali. Anche i vaccini adiuvati mostrano risultati superiori, con una produzione di anticorpi fino al 58% maggiore nei soggetti oltre i 65 anni. Queste strategie non annullano l’immunosenescenza, ma riescono parzialmente a compensarla.
L’industria farmaceutica sta esplorando anche altre strade. Una possibilità consiste nel tentare di “ringiovanire” il sistema immunitario prima della vaccinazione, utilizzando molecole che contrastano specifici processi di invecchiamento cellulare. Un’altra opzione prevede di somministrare i vaccini con tempistiche diverse, sfruttando finestre temporali in cui la risposta immunitaria è più favorevole. Alcuni ricercatori stanno inoltre studiando come modulare la produzione di interleuchina-4 per riequilibrare il tipo di anticorpi generati dopo la vaccinazione.
La sfida della prevenzione nelle fasce più fragili
I numeri raccontano l’urgenza del problema. Secondo l’ISS In Italia, il 63% dei ricoveri ospedalieri per influenza e l’85% dei decessi correlati riguardano persone con più di 65 anni. L’influenza e la polmonite figurano tra le prime dieci cause di morte nel paese. Nonostante questo, la copertura vaccinale antinfluenzale negli over 65 italiani si attesta poco sopra il 50%, ben lontana dall’obiettivo del 95% raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La ricerca dell’Allen Institute non si limita a spiegare perché i vaccini funzionano meno negli anziani, ma fornisce anche indicazioni preziose per le politiche sanitarie. Sapere che la riprogrammazione dei linfociti T inizia già tra i 55 e i 65 anni suggerisce che gli interventi preventivi potrebbero essere anticipati. Inoltre, la scoperta dello sbilanciamento verso cellule TH2 potrebbe guidare lo sviluppo di vaccini che tengano conto di questa peculiarità, progettati per stimolare risposte immunitarie più bilanciate.
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