La poetessa, esule in Olanda, intreccia la storia personale di migrazione e umiliazione con quella collettiva del suo popolo e usa la parola come un’arma contro l’oppressione
Somaia Ramish è una poetessa, scrittrice, giornalista e attivista per i diritti umani, nata a Herat, in Afghanistan, e cresciuta in Iran. Per oltre vent’anni ha contribuito alla crescita democratica del suo Paese, dedicandosi alla difesa dei diritti delle donne, dei bambini e dei disabili. Il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto del 2021 l’ha costretta a lasciare l’Afghanistan per l’esilio in Olanda. “Carica le poesie come pistole”: sono versi tratti dalla sua raccolta Parole dall’esilio, a cura di Giorgia Pietropaoli con la prefazione di Antonella Napoli, in cui si fa portavoce di un grido di dolore e protesta. Somaia Ramish intreccia la storia personale di migrazione e umiliazione con quella collettiva del suo popolo, creando un legame profondo tra passato e presente usando la parola come un’arma contro l’oppressione.
Dialogo via zoom con Somaia Ramish che, nel corso di questo mese, è ospite d’onore come poeta a L’Aquila per il Premio Letterario Internazionale “Laudomia Bonanni”.
I suoi versi sono intrisi di malinconia e nostalgia. In che modo il suo esilio ha influenzato la sua poesia e la sua identità di donna e attivista?
Sono stata costretta a lasciare il mio Paese, la mia città, la mia casa, i miei parenti e a vivere in un luogo la cui lingua, il cui clima e la cui natura mi erano sconosciuti. L’unica cosa che ho portato con me dalla mia patria sono state le mie parole. Oggi, tutto ciò che mi circonda si trasforma in poesia: un percorso di lotta e la mia arma per l’uguaglianza e la libertà.
Nel testo si afferma che ha “rivisitato e reinventato l’eredità della poesia femminile afghana”.
La poesia delle donne afghane da sola attraversa più di mille anni, da Rābia Balkhi ai giorni nostri, è stata uno strumento di resistenza e resilienza. Quando scrivo, sto anche salvaguardando un vasto patrimonio culturale. La mia poesia è la voce delle donne afghane, uno specchio delle loro speranze e delle loro sofferenze. È una protesta contro il silenzio e l’indifferenza del mondo. Per me è vitale che il mondo riconosca e sostenga l’immagine della donna afghana consapevole e resistente.
Ha scritto: “Carica le poesie come pistole”. A suo avviso, qual è il potere della parola poetica nel resistere alla violenza e all’oppressione dei talebani?
Credo che la poesia, pur essendo intima ed estetica, sia anche profondamente potente. Nel corso della storia è stata in prima linea nelle lotte per l’uguaglianza, dando coraggio alle persone e diventando la voce della resistenza. In Afghanistan diciamo: “Ciò che viene dal cuore arriva al cuore”. Il senso di solidarietà che le persone provano per queste poesie è di per sé un fattore di empowerment.
Nel suo saggio Call Me by My Name, affronta il tabù di pronunciare i nomi delle donne in Afghanistan. Qual è per lei il significato della lotta per il diritto a un’identità e a un nome, e come si riflette nelle sue opere?
Quel saggio è stato uno dei miei lavori più significativi sulla questione dell’identità femminile. Una madre che dà alla luce e cresce un bambino non può registrare il proprio figlio o far apparire il proprio nome sui documenti ufficiali. L’assenza di un nomwe significa cancellazione. Proprio come nella storia e nella letteratura, i nomi delle donne sono stati cancellati, le loro poesie pubblicate sotto pseudonimi o la loro presenza negata dalle strutture di potere dominate dagli uomini; questa cancellazione esiste a ogni livello della società. Ho cercato di essere una voce per queste donne, per sensibilizzare, per fare luce e affrontare la sistematica cancellazione delle donne.
Ha dedicato vent’anni della sua vita a lavorare per i diritti dei più vulnerabili, tra cui donne, bambini e persone con disabilità. Come si collega direttamente il suo attivismo alla sua produzione letteraria?
Per me, la poesia e le donne sono sempre state due preoccupazioni inseparabili e profondamente significative. Formano il nucleo della mia vita, delle mie lotte e della mia scrittura. Come ragazza nata in Afghanistan, ho affrontato personalmente la violenza, la discriminazione e una grave ingiustizia di genere, dalla mia stessa famiglia alla società in generale. Ho coltivato il sogno di diventare una donna indipendente e libera. Ho riflettuto sull’uguaglianza e sul cambiamento, e questa convinzione attraversa sia la mia poesia che il mio lavoro politico e per i diritti umani.
Descrive le donne afghane come “sepolte vive” e private dei loro diritti più elementari.
In questo momento, le donne afghane vivono sotto i talebani nelle peggiori condizioni possibili per i diritti umani. In una situazione del genere, il futuro delle ragazze afghane viene distrutto, le loro speranze e la loro stessa esistenza inghiottite dal vuoto, dall’oscurità e dalla disperazione, eppure nessuno sembra ascoltare le loro voci. La mia poesia è il loro grido. La poesia può trascendere i confini politici e costruire ponti tra le persone. Attraverso le mie poesie la mia voce raggiunge il mondo, e credo che sia esattamente ciò che deve accadere: la poesia che adempie alla sua responsabilità sociale.
In uno dei suoi scritti, descrive l’umiliazione che ha provato sia rimanendo nella sua patria che fuggendo. Come ha elaborato queste esperienze e qual è la sua visione per un futuro in cui gli afghani possano ritrovare dignità e libertà?
Senza una patria una persona si sente sospesa. Come essere umano, donna, madre e poeta, sono stata distrutta mille volte dopo la caduta. I miei sogni, le mie speranze e le mie convinzioni sono stati distrutti, eppure anche in questa distruzione continuo ad andare avanti: scrivendo, parlando e lottando, perché la nostra dignità e la nostra libertà valgono. La mia visione vive nelle mie poesie. Per me è impossibile accettare un futuro buio e primitivo per l’Afghanistan.
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