L’attore, tre volte Premio Oscar, veste i panni di Ray in un dramma familiare. La pellicola, ambientata durante il conflitto nord-irlandese e presentata al Festival di Roma, è nelle sale da novembre
Non ha mai affrontato con naturalezza l’aspetto pubblico del suo mestiere. Per questo otto anni fa ha deciso di prendersi una pausa. Ora è tornato al fianco di suo figlio Ronan, in un dramma familiare, cupo, potente, che parla di Ray, un uomo e padre che vive isolato in una casa immersa nel bosco da vent’anni. Il fratello Jem lo va a cercare per chiedergli di tornare e aiutare il figlio a superare un momento difficile.
Daniel Day-Lewis è il protagonista di Anemone, presentato in anteprima alla 23ª edizione di “Alice nella Città”, il festival autonomo della Festa del Cinema di Roma dedicato alle nuove generazioni, e nelle sale dal 6 novembre con Universal Pictures. Un film che parla di rancori familiari e segreti inconfessabili, ma anche di abusi della Chiesa cattolica e crimini di guerra nell’Irlanda del Nord.
L’attore britannico, con cittadinanza irlandese, 68 anni, tre Oscar e una serie di performance indimenticabili, da L’ultimo dei Mohicani a Il petroliere, fino a Il filo nascosto, oltre mezzo secolo di carriera, iniziata a soli 14 anni in un piccolo ruolo per il grande schermo, ci parla del suo ritorno al cinema. «Non ho smesso di fare questo lavoro perché non ne ero più innamorato – dice -. Mi sono semplicemente preso una pausa. Per alcuni anni ho sentito di dover smettere di recitare. Ma, dopo questa esperienza con mio figlio, voglio continuare a farlo».
Day-Lewis ha scritto Anemone insieme a Ronan, avuto dalla moglie, la regista e scrittrice Rebecca Miller, con la quale è sposato da quasi trent’anni. Da quando il figlio era piccolo, i due hanno condiviso molto insieme. Nulla a che vedere con i personaggi della pellicola. «Facendo il film, non ho pensato al rapporto che abbiamo io e Ronan – racconta -. Mi ha fatto però riflettere su quello che avevo con mio padre, così distante da me. Se n’è andato quando ero giovane. Le mie sono state conversazioni con un genitore assente. C’è stata una sorta di strana comunicazione unilaterale con un uomo che non c’era più nella mia vita».
Di suo figlio, spiega quanto sia «un essere umano molto più evoluto della sua età. Quando avevo 27 anni ero affamato e ansioso di fare l’attore, come lo sono i giovani. Cercavo di comprendere in che modo mi sarei evoluto personalmente. Sono sempre stato timido», confessa ancora. Una timidezza che ha fatto parte della sua vita senza mai abbandonarlo: «Pensavo che con il tempo ci avrei fatto l’abitudine. Non è stato così. È strano per chi lavora nel mondo dello spettacolo. Il cinema può essere sicuramente un modo per esprimersi. Quando indossi una maschera per un ruolo, chiedi in qualche modo alle persone di prestare attenzione a quello che fai. E una volta che la ottieni, è difficile spegnerla. Io, però, ho preferito vivere un’esistenza molto tranquilla. E questa scelta è stata una specie di antidoto per me. C’è chi mi ha detto che sono un recluso. Ho vissuto in mezzo alle persone, decidendo semplicemente di non stare sotto ai riflettori».
I conflitti, di cui si parla nel film, Day-Lewis li ha vissuti. «Il mio personaggio è ispirato a un caro amico che ha servito nell’esercito britannico. Un uomo articolato e pieno di sfumature, molto diverso da quelli che avevo interpretato in passato». Ray parla di crimini di guerra, ma dice anche che «la guerra è un crimine». Una frase connessa al mondo in cui viviamo. «Sono nato negli anni Cinquanta. Da bambino ascoltavo i racconti della mia famiglia sulla Seconda guerra mondiale. Paradossalmente c’era un senso di romanticismo in quei conflitti. Un’immagine illusoria ma potente della piccola isola che resiste contro la tirannia – spiega l’attore -. Da bambino, vedevo le macerie dei bombardamenti come un campo da gioco. Sono cresciuto nel sud-est di Londra, vicino ai Docklands, dove c’erano i resti dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Noi bambini passavamo il tempo a giocare tra le rovine. Ci sembrava un’avventura. Poi sono cresciuto, e ho avuto amici da entrambe le parti del conflitto nord-irlandese. Ho abitato a Belfast, nella zona cattolica della città. Quel periodo storico è molto complesso. Mio padre era un nazionalista irlandese, lo sono anche io, senza arrivare a giustificare gli atti orribili compiuti da ciascuna parte. È stato un conflitto sporco e tragico, in cui moltissime persone innocenti sono state uccise, ferite, distrutte psicologicamente, compresi i giovani soldati pagati per farlo. Ogni conflitto – conclude – è crudele e senza redenzione. Qualunque posizione uno abbia, la guerra è un crimine».
In attesa di vederlo recitare in nuovi film, Day-Lewis esclude la possibilità di passare dietro la macchina da presa: «Ho avuto diverse volte l’opportunità di farlo, ma ho sempre rifiutato. Non avrei la sensibilità o la testa per comprendere fino in fondo tutti i compiti che ha un regista. Conosco i miei limiti».
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