Reportage, autobiografia e impegno si intrecciano in una scrittura che attraversa luoghi, generazioni e conflitti, restituendo voce a storie vere, troppo spesso dimenticate
Angelo Ferracuti è uno scrittore e giornalista che molti nostri lettori conoscono bene. La sua prosa è diretta e incisiva, spesso basata su reportage e inchieste che fondono narrazione e realtà. I temi ricorrenti sono la marginalità, il lavoro e le trasformazioni sociali. È anche un grande viaggiatore, con tappe in ogni continente. Tra i suoi libri narrativi o giornalistici ricordiamo: Addio e La metà del cielo. Voce importante del reportage letterario di questi anni, indaga le ferite e le complessità del nostro tempo, con particolare attenzione all’Italia centrale, partendo dalla sua Fermo, dove è nato nel 1965. L’ultimo suo romanzo Il figlio di Forrest Gump (Mondadori) è una gran bella storia sul complicato rapporto tra un padre e un figlio, che diventa anche la spia di un conflitto generazionale, come Ferracuti stesso ci ha spiegato in questa intervista in cui lo abbiamo interrogato sui temi e sulle responsabilità delle sue scritture.
Nei suoi libri, il viaggio e la memoria emergono spesso come elementi centrali. In che modo le due dimensioni si intrecciano e si alimentano reciprocamente nella scrittura?
Del viaggio mi attrae la dimensione di scoperta e di cambiamento dello sguardo, soprattutto nel reportage, mentre la memoria storica, o quella che Kapuściński chiamava “storia viva”, è la dimensione politica, il contesto non neutrale nel quale agiscono le persone e i personaggi. I miei libri spesso nascono da questa commistione, da questa suggestione. E poi il viaggio per chi è nato in provincia significa, oltre che scoperta, anche spaesamento e libertà di perdersi, di esplorare.
Attinge spesso a esperienze e luoghi reali per costruire le sue narrazioni. Qual è il confine tra la realtà documentata e l’invenzione?
Sono principalmente un cucitore di storie dal vero, ho una forte attrazione per le realtà sociali, i destini dei popoli, i destini in genere, di cui mi documento con molta cura. Ma anche nel reportage c’è una componente di fiction, che non riguarda i fatti ma come quei fatti vengono raccontati. Diversamente da un giornalista, uno scrittore di reportage costruisce con più intenzionalità i dialoghi, le descrizioni e, nel montaggio, compie anche una piccola reinvenzione della realtà, un po’ la manipola, naturalmente non modificando i contenuti.
Il figlio di Forrest Gump suggerisce fin dal titolo un legame con il personaggio cinematografico. Come ha deciso di prendere spunto da un riferimento così popolare?
È un nomignolo che alcuni amici affettuosamente mi hanno affibbiato. L’ho scelto perché l’immaginario di quel film è molto forte e ben si legava alla storia di mio padre, un super maratoneta un po’ sui generis che in tarda età, dopo aver sconfitto un cancro, si mette a correre e non si ferma più. Inoltre lui, come quello del film, era un uomo con la stessa ingenuità.
Il protagonista del libro sembra essere un personaggio molto complesso e sfaccettato.
I protagonisti sono due, mio padre e io, che poi fuori dal contesto della nostra città diventiamo inevitabilmente due personaggi di un romanzo. Ma questa storia mi serviva per raccontare non solo i conflitti tra un padre e un figlio, ma quelli generazionali dentro la temperie degli Anni ’70, che sono stati anche quelli miei di formazione politica, culturale, miei e di una intera generazione ribelle alla quale sono molto affezionato e volevo rinominare.
In Il figlio di Forrest Gump, la provincia gioca un ruolo specifico o è più un palcoscenico?
La provincia come microcosmo gioca un ruolo molto forte in tutti i miei libri, la sua meccanica sociale è qualcosa di cui ho forte cognizione e posso raccontare meglio di qualsiasi altro posto. È un luogo interiore e dell’immaginario, ma anche paesaggio, luogo ancestrale delle radici, così come una geografia chiusa, coercitiva, per certi versi soffocante.
Alcuni dei suoi libri toccano temi sociali e politici. La letteratura ha un ruolo o una responsabilità nel commentare la realtà contemporanea?
La letteratura ha sempre una responsabilità, tutto dovrebbe avere sempre una responsabilità. Tutto è politico, a cominciare da chi nega questo ruolo. È una responsabilità a più livelli, estetico, di forma, di sguardo sul mondo, concorre insieme ad altre cose a creare un immaginario, piccolo o grande che sia.
C’è una reazione o un’interpretazione da parte del lettore che l’ha particolarmente colpita o sorpresa riguardo a Il figlio di Forrest Gump?
In un istituto scolastico di Avezzano il preside mi ha detto che, in realtà, ho raccontato mio padre per raccontare me stesso. Non era un giudizio negativo, aveva premesso di aver apprezzato il libro. Gli ho risposto che aveva ragione, volevo raccontare la mia educazione sentimentale, la mia formazione in rapporto con questa figura non riconciliata, con la quale non ho avuto un rapporto facile. C’è sempre una componente di autoanalisi, di sdoppiamento nelle opere letterarie.
Ci sono temi o luoghi che la stanno ispirando per un nuovo racconto?
In questo momento sto andando in Africa. Sono stato in Mozambico, Tanzania, Kenya e continuerò a viaggiare; credo che i racconti che pubblico su “La lettura” del Corriere della Sera un giorno diventeranno un libro. E poi sto pensando al terzo romanzo di una serie di storie autobiografiche, che incrocia anche la storia di un poeta leggendario di cui sono stato molto amico, Luigi Di Ruscio.
© Riproduzione riservata